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Scuola on line: Introduzione allo studio della Bibbia

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

Gli insegnamenti di Don Giovanni Boggio (Biblista)

sabato 13 maggio 2017

PROPAGANDA ELETTORALE ANCHE NELLA BIBBIA?


Viviamo in clima di propaganda elettorale permanente. Tra elezioni politiche, amministrative, locali, nazionali, europee che si svolgono a casa nostra o nei paesi vicini siamo sempre in attesa di vedere quanti saranno i votanti e come sarà l’esito del voto. Né ci accontentiamo dei risultati finali, perché abbiamo inventato gli exit-poll per intuire mezz’ora prima del comunicato ufficiale come saranno i risultati definitivi. Se aggiungiamo qualche referendum di vario genere completiamo un quadro che dimostra un’inquietudine di fondo rivelata dalla frenesia del cambiamento.

mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RICERCA DI UN DIALOGO

Penso di non essere stato l’unico ad essere piacevolmente sorpreso nel sentire pronunciare parole come “pace” e “dialogo” in una città come Il Cairo a pochi giorni di distanza da atti di terrorismo che l’hanno colpita causando decine di morti e di feriti. È accaduto durante la breve visita del papa in Egitto alla fine di aprile. Sentirle dalla bocca del papa non meraviglia. Francesco ci ha abituati a
questi discorsi che possiamo considerare scontati. Ma sentirle dette dal rappresentante di una grande fetta del mondo musulmano e da un capo di Stato proveniente dagli alti gradi dell’esercito, fa un certo effetto. Non le hanno dette a tutto tondo, è vero, però mi è sembrato di cogliere un desiderio sincero di superare gli ostacoli che impediscono ancora la realizzazione di quello che continua ad essere un bel sogno, come dimostrato dagli attentati avvenuti nei giorni immediatamente successivi in paesi vicini.

mercoledì 26 aprile 2017

CONFUSIONI PERICOLOSE


         Abbiamo visto quanto sia facile scambiare le immagini con la realtà che rappresentano. Ma l’identificazione è anche fonte di grossi equivoci soprattutto quando si tratta di questioni importanti. Per non cadere nella trappola, prima di tutto è necessario capire a quale tipo di immagine ci troviamo di fronte e qual’è il motivo per cui ci viene presentata. Prendiamo l’esempio dalle figure presenti nei segnali stradali. Lo scopo per cui sono realizzati è quello di informare il viaggiatore sulle condizioni della strada e soprattutto di mettere in guardia da eventuali pericoli. Per ottenere questo si ricorre a disegni stilizzati secondo schemi convenzionali che non hanno nessun riscontro preciso con la realtà che viene rappresentata in forme astratte. Nessuno si aspetta di trovarsi davanti due bambini che si tengono per mano come quelli del segnale. E anche se ne vede uno solo, oppure una frotta vociante e disordinata che gli attraversa la strada, sa che deve frenare anche se l’immagine che ha visto prima è diversa dalla realtà che vede davanti a sé.

venerdì 14 aprile 2017

QUESTA NON È UNA SEDIA

       Era una battuta di padre Nazareno Taddei quando iniziava le sue conferenze sul cinema. Alla sorpresa degli uditori, rispondeva precisando che era la foto di una sedia ma non la sedia. In altre parole le foto, il cinema, i disegni rappresentano la realtà ma non sono la realtà. La presentano come la vede o la ricorda (o l’immagina) il fotografo o l’artista ma si tratta sempre di un sostituto della “cosa”, mai della cosa in se stessa. La rappresentazione può essere più o meno fedele ma non si potrà mai sovrapporre esattamente all’originale tanto da identificarsi con quello. La preoccupazione di p. Taddei riguardava l’aspetto dell’educazione alla lettura delle immagini della vita presentate dal cinema.

giovedì 6 aprile 2017

NUOVA ALLEANZA VS. ANTICA ALLEANZA?




“Accetto il Vangelo, ma non l’Antico Testamento”. Sembra incredibile, ma si sentono e si leggono ancora valutazioni di questo tipo da parte non solo di semplici battezzati ma anche da chi ha ricevuto il sacramento dell’ordine sacro. I motivi del rifiuto sono ancora e sempre i soliti. L’Antico Testamento – si dice – è pieno di inviti alla violenza provenienti da Dio stesso, è costruito su racconti fantastici, ricorre a storie mitologiche, non ha nessun legame serio con la storia, rispecchia una cultura che ignora le scienze, ecc. e quindi è inaffidabile. Soprattutto presenta un’immagine di Dio inaccettabile da noi che crediamo nel Dio Padre buono e misericordioso che ci ha presentato Gesù nel Vangelo.


Questo quando parlano i credenti. I non credenti non esitano a mettere anche il Nuovo Testamento insieme all’Antico e alle religioni che hanno ispirato, nel bidone dei rifiuti. Tolta di mezzo la Bibbia, rimane poi solo il Corano verso il quale si professa ammirazione e stima, spesso per motivi di opportunismo politico o per timore di rappresaglie da parte di islamici fanatici.

Non sono bastati i documenti prodotti dalla Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II riguardanti i rapporti tra Antico e Nuovo Testamento e tra Cristianesimo ed Ebraismo, a togliere pregiudizi consolidati da secoli di insegnamenti fuorvianti e tendenziosi. Né è bastata la Shoà a far aprire gli occhi per vedere a quali aberrazioni può condurre l’ignoranza guidata dal fanatismo sia religioso che laico, anche se questo si camuffa da scienza. Vedi gli scienziati che si sono venduti al nazismo o quelli che ancora oggi sono al servizio dei produttori di armi protetti dai vari governi.

Che cosa dicono i Vangeli?

Ma lasciamo da parte il discorso politico – che conosco solo dall’esterno, da quanto pubblicato dai giornali – per entrare in quello biblico che mi è più consono. Possibile che i sostenitori dei vangeli contrapposti alla Bibbia ebraica non si accorgano che le loro letture sono contrarie a quanto scritto proprio in quei vangeli che essi esaltano? Nel vangelo di Giovanni è riportata un’affermazione fatta da Gesù verso la conclusione di una disputa con i Giudei: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza” (Giovanni 5,39). Dunque l’autore del quarto vangelo è convinto che le Scritture – cioè la Bibbia ebraica – non solo alludono ad un Messia futuro ma forniscono dei dati precisi che ne permettono l’identificazione nella persona di Gesù.

Anche nel vangelo di Luca troviamo la stessa convinzione espressa dal viandante misterioso che si affianca ai due discepoli lungo la strada per Emmaus: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Luca24,25-27). Il viandante si farà riconoscere come lo stesso Gesù che per far capire il senso della sua vita ha fatto ricorso a quei libri che noi chiamiamo Antico Testamento.

È comune ai quattro vangeli il riferimento ai testi sacri conservati dagli Ebrei per spiegare quanto era avvenuto nella vita di Gesù che nel suo insegnamento si aggancia sempre a quanto “è scritto” anche quando sembra contraddirlo. L’evangelista Matteo riporta un’affermazione di Gesù che sintetizza tutta la sua vita: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Matteo 5,17-18).

Oltre ai vangeli anche gli altri libri del Nuovo Testamento sono disseminati di citazioni della Bibbia ebraica, anche se sono riportate non in ebraico ma in greco, la lingua usata per l’antica traduzione conosciuta come i Settanta(LXX). Ciò dimostra quanto fosse radicata la convinzione del legame profondo che unisce le due raccolte di libri ritenuti sacri dai cristiani che non mostrarono alcun imbarazzo di fronte a testi che solo in seguito sono stati percepiti come scandalosi o per lo meno inopportuni.

Quando il cinema combina guai

Se a questa ipersensibilità (che a volte ha raggiunto la pruderie) si aggiunge la difficoltà oggettiva di leggere i testi antichi nel loro ambiente di origine e non in quello dei lettori successivi, si capisce anche la posizione della Chiesa cattolica che è arrivata a proibire non solo la lettura ma addirittura il semplice possesso della Bibbia. Accanto a queste chiusure basate su pregiudizi si è sempre mantenuto un contatto con i libri sacri nel loro complesso, anche se è stata data la preferenza ad alcuni. Così è avvenuto per il libro dei Salmi, forse il più letto e amato tanto da diventare il modello della preghiera, anche perché lo stesso Gesù vi ha fatto ricorso nel momento più drammatico della sua vita prima di morire in croce (Matteo 27,46; Marco 15,34).


Altri libri dell’Antico Testamento sono entrati nella nostra cultura per alcuni racconti particolarmente suggestivi, grazie anche alla letteratura, al cinema e alla TV. Purtroppo le esigenze dello spettacolo hanno portato a dare un rilievo eccessivo ad episodi che già nei testi biblici erano stati presentati con toni enfatici, com’era l’uso di tutti gli storiografi del mondo antico. Il risultato di questa operazione – dovuta principalmente a motivi commerciali – è stato un deprezzamento del testo biblico, compreso quello dei vangeli, visto come una raccolta di favole per bambini.

È stata la dimostrazione che Antico e Nuovo Testamento sono uniti in modo strettissimo tra di loro e che la disistima nei confronti di uno, prima o poi coinvolge anche l’altro. Mi verrebbe voglia di ripetere le parole di Gesù riguardo al matrimonio: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Matteo19,6).

Concludo ricordando brevemente che senza la Bibbia ebraica non si capisce che cosa significa Messia, peccato, sacrificio, redenzione, salvezza, Dio Padre, popolo di Dio, alleanza… e si potrebbe continuare con qualità che attribuiamo alla nostra Chiesa come se fossero cose scontate. Ma non lo sono, e voler tagliare le radici che ci mantengono in vita è condannare a morte la nostra fede.

Cosa che mi auguro non rientri nelle intenzioni di chi contrappone il Nuovo al Testamento Antico che, se letto con metodo veramente scientifico, non è quella raccolta di storielle più o meno ridicole e poco edificanti come pensano molti. Però non è nemmeno un repertorio intessuto soltanto di buoni esempi da riprodurre in fotocopia, come vorrebbero i buonisti alla ricerca di letture rilassanti.


giovedì 30 marzo 2017

IL CONVEGNO DELLA DISCORDIA


        Il convegno di studi organizzato dall’ABI a Venezia per il mese di settembre continua a richiamare l’attenzione e le critiche del mondo ebraico. Il 22 marzo il quotidiano La Stampa ha pubblicato un lungo articolo di Lisa Palmieri-Billig, rappresentante in Italia e presso la Santa Sede
dell’AJC (American Jewish Committee), nel quale si ripropongono le proteste dei rabbini italiani con altre considerazioni sul tema del convegno. Molto spazio viene dato ai documenti della Chiesa cattolica riguardanti i rapporti con l’Ebraismo a partire dal Concilio Vaticano II. Le aperture auspicate dalle dichiarazioni ufficiali però – secondo la giornalista – sarebbero spesso disattese nell’insegnamento dalla catechesi ai bambini fino alle facoltà teologiche e nelle omelie, comprese
quelle di papa Francesco. Il convegno di Venezia rientrerebbe in questa linea e le dichiarazioni di stima, amicizia e collaborazione con gli ebrei rilasciate dal presidente dell’ABI al quotidiano Avvenire, non sarebbero sufficienti per cancellare l’impressione che nulla sia cambiato nei pregiudizi diffusi nei confronti del popolo ebraico.
       L’articolo è duro anche nel denunciare la poca “scientificità di metodo” nell’affrontare temi prettamente biblici come la “gelosia” di Dio, l’elezione di Israele, l’universalismo, la molteplicità di significati, lo stretto rapporto con la storia. La conclusione può esprimere il contenuto e il tono di tutto l’articolo: “Forse la cosa di cui c’è più bisogno oggi è di rispolverare la conoscenza della storia ebraico-cristiana e di chiedere che seminaristi, studenti e professori universitari diano una ripassata approfondita ai documenti rilevanti”.
       Nel mio post precedente mi ero limitato a spiegare i motivi che hanno costretto a modificare il titolo del convegno senza entrare nel merito dei contenuti. Mi premeva soprattutto evidenziare l’importanza delle parole e dell’uso che se ne fa. L’articolo de La Stampa mi offre l’opportunità di riflettere su qualche argomento forse trascurato o sottovalutato, come  

La molteplicità di significati

Giustamente l’articolo afferma che la religione degli ebrei si fonda sulle molteplici interpretazioni date nel corso dei secoli alle parole della Bibbia ebraica. Evidentemente il riferimento è alle diverse scuole rabbiniche, tanto differenti nell’interpretare le parole quanto ostinatamente unite nel rispettare la loro forma. Ma questo metodo è già presente nella stessa composizione della Bibbia ed è dovuta in gran parte proprio alle caratteristiche della lingua ebraica, relativamente povera di radici che possono assumere significati diversi a seconda del contesto in cui sono inserite.
In uno dei post precedenti avevo giocato con due radici ebraiche lkm e shlm, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Può sembrare un gioco enigmistico ma è il fondamento del metodo che porta i rabbini a scoprire significati reconditi di parole e frasi tutti ugualmente degni di rispetto. La diversità non deve essere considerata causa di contrapposizione ma piuttosto come arricchimento di un patrimonio comune che ognuno può accrescere con il suo contributo.
Come si intuisce, è un metodo rischioso se porta a considerare la propria scoperta come unica verità assoluta o, al contrario, se conduce al relativismo. Soltanto una visione globale della realtà, che unifichi le mille facce dell’universo è in grado di creare quel mondo ideale a cui la Bibbia dà il nome di “attesa messianica”.
Dispiace vedere come questo principio elementare non sia stato seguito nella pratica da nessuna religione, nemmeno – si deve riconoscere – dagli stessi ebrei che lo hanno teorizzato e applicato alla loro esperienza di fede e, forse un po’ meno, alla loro vita politica e sociale e meno ancora nei rapporti con altre religioni e popoli. Non ci si deve meravigliare di queste incongruenze, fanno parte della vita reale e rientrano nella lista dei desideri e dei buoni propositi. 


Le “ambivalenze” della Bibbia

Si sente spesso accusare la Bibbia – ma si sottintende “Antico Testamento” – di essere piena di violenza attribuita a ordini precisi dati da Dio. È infantile, ingenuo e controproducente negare che ci siano pagine intere che descrivono, anche con un certo compiacimento, episodi di stragi e massacri di intere popolazioni eseguiti su comando di Dio. Ci sono, ma bisogna capire e spiegare il perché di quei racconti e confrontarli con quelli analoghi di altri popoli. Si vedrà facilmente che era un modo comune di narrare le imprese epiche dei propri soldati e condottieri per esaltare la grandezza del popolo e del dio che lo proteggeva.
La Bibbia non fa eccezione ma, accanto a testi decisamente violenti ne propone altri che esortano a cercare la pace e l’armonia non solo all’interno del popolo ebraico ma anche nei rapporti con gli altri popoli. L’autore del Salmo 137 riempie di sdegno il lettore moderno quando proclama “Beato chi afferrerà” i bambini dei babilonesi “e li sbatterà contro la pietra” (Salmo 137,9). Però non possiamo ignorare l’esortazione che il profeta Geremia rivolge ai Giudei deportati prigionieri a Babilonia: “Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Geremia29,7).
L’invito di Geremia è stato seguito dai deportati tanto fedelmente da trasformare l’odiata Babilonia in una nuova Terra promessa dove per un millennio gli Ebrei hanno vissuto in pace sviluppando la loro cultura e studiando la propria religione. 


Il “Popolo eletto”

 L’espressione dà fastidio a molti e viene considerata la causa di una presunta superiorità sugli altri popoli che gli Ebrei avrebbero nel loro DNA. Questa convinzione sarebbe evidenziata dai comportamenti nella vita quotidiana dove l’ebreo ci tiene a distinguersi da tutti nel modo di vestire, nel cibo, nella fedeltà a tradizioni incomprensibili nell’ambiente in cui vive. Anche altri gruppi etnici sono riconoscibili per caratteristiche simili ma la cosa sembra diventare un problema soprattutto quando si tratta di israeliti. Come si spiega questa attenzione mirata ad un solo gruppo?
La risposta può venire dalla nostra storia, ma affonda le radici nella Bibbia dove abbondano prescrizioni molto rigide riguardanti l’abbigliamento, i cibi, i gesti da compiere, i rapporti da evitare, i tempi da rispettare, le formule delle preghiere. L’osservanza di tutte queste norme costituisce l’identikit di chi appartiene al popolo che Dio si è scelto tra tutti i popoli.
Nel libro dell’Esodo (19,5-6) è riportata l’affermazione attribuita a Dio: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”.  È tutto spiegato: Dio si interessa di tutti i popoli della terra ma vuole mettersi in contatto con loro attraverso un popolo che sia disposto a fare da tramite, ad essere come un ponte che unisce l’umanità a Dio. Universalismo e particolarismo non sono in contrasto ma complementari. La scelta è fatta in funzione di una missione da compiere e ciò richiede una forte identità, l’assunzione di responsabilità, la rinuncia a comodi privilegi di cui altri possono godere.
Verso la fine dell’articolo la Palmieri-Billig scrive: “Nella comprensione di se stessi, per gli ebrei essere ‘scelti’ o ‘eletti’ implica l’obbligo e il dovere di essere da esempio, per l’umanità intera”. Mi sembra che sia l’interpretazione corretta del testo di Esodo 19 che ho citato e che trova conferma in tutti i racconti di vocazione riguardanti i profeti: Dio li chiama per inviarli alla gente. Può apparire una contraddizione se riassumiamo in una battuta: “Dio chiama il profeta per mandarlo via”. 
Vorrei concludere queste riflessioni con una domanda che rivolgo prima di tutti ai cristiani e poi, con grande rispetto e simpatia, anche ai fratelli Ebrei confidando di essere accolto grazie al principio del pluralismo e della diversità delle idee alla ricerca della verità. Quanto è diffusa e condivisa la consapevolezza di aver ricevuto l’incarico “di essere da esempio per l’umanità intera”?
Ricordo che la Bibbia ebraica ci offre un esempio, costruito in modo magistrale, di un profeta scelto e inviato da Dio a comunicare un suo messaggio al popolo considerato il grande nemico. Giona – è lui il protagonista di questa storia emblematica – dapprima rifiuta platealmente l’incarico e poi quando è costretto ad eseguirlo, lo fa stizzito e indignato verso quel Dio che lo aveva “eletto”.
Nella nostra storia forse ci sono stati troppi emuli del profeta riottoso che dava alla “gelosia” del suo Dio un’interpretazione di comodo, smentendo nei fatti quanto proclamava con le parole.

venerdì 17 marzo 2017

QUANTO PESANO LE PAROLE

        Se l’ABI – Associazione Biblisti Italiani – voleva pubblicizzare il convegno di studi sull’Antico Testamento che si svolgerà a Venezia il prossimo settembre, si deve riconoscere che ci è riuscita. È bastato comunicare il titolo del convegno per suscitare un coro di proteste da parte del mondo ebraico italiano che si è sentito coinvolto e messo sotto accusa dal tema proposto per lo studio e le
successive discussioni da parte dei biblisti che interverranno. Ma perché la semplice enunciazione di un argomento su cui si invitava a riflettere ha messo in subbuglio i nostri fratelli ebrei? La risposta è semplice e può sembrare anche banale. Il tema del convegno era stato presentato con parole non appropriate, o meglio, non opportune. Forse potevano anche essere giustificate con qualche riserva e sottigliezza interpretativa, ma l’impressione che suscitavano alla prima lettura era decisamente contraria alle intenzioni che mi auguro avessero gli organizzatori del convegno.

“Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria” era il tema del convegno che figurava nel dépliant spedito ai soci dell’associazione e che si poteva leggere anche nel sito dell’ABI. Quattro parole sono state percepite dai lettori ebrei come offensive nei loro confronti, a partire da quel “Israele” messo in evidenza senza alcuna precisazione, cosa che poteva indurre ad identificare tutti gli ebrei di ogni epoca con i seguaci di una religione definita “elitaria”, cioè esclusiva e ritenuta superiore ad ogni altra. C’era poi quel “geloso” attribuito a Dio, che faceva pensare ad un sentimento meschino, egoistico, contrario all’immagine di Dio a cui siamo stati abituati. Infine l’”ambiguità” abbinata alle coerenze consolidava il pregiudizio diffuso di un comportamento subdolo attribuito agli ebrei per coprire le loro trame nascoste ed arrivare così al dominio del mondo.
Inoltre la generalizzazione del termine “Israele” faceva pensare allo stato che porta quel nome con tutte le conseguenze politiche legate ai conflitti di questi ultimi decenni. Ancora, l’espressione “Dio geloso” che è tipica della Bibbia, sparata lì con noncuranza, poteva destare non solo meraviglia ma addirittura il rifiuto della stessa Bibbia, o almeno di quello che noi cristiani indichiamo come Antico Testamento. In realtà l’ambiguità denunciata riguardava piuttosto il titolo dato al convegno che poteva essere facilmente interpretato in chiave per lo meno antisionista se non antisemitica.

Il Presidente dell’ABI non è Ponzio Pilato
Come si vede, ce n’era abbastanza anche per temere un risveglio di quell’antisemitismo che continua a serpeggiare in certi ambienti occidentali e che si manifesta violento in quelli medio orientali. Come biblista socio dell’ABI sono sicuro che gli organizzatori del convegno di settembre non intendevano offendere nessuno e lo hanno dimostrato subito con un’operazione semplicissima: rendere evidente per tutti che cosa volevano raggiungere con i loro studi. Da bravi biblisti, si sono ricordati delle parole che Pilato ha rivolto ai capi dei sacerdoti ebrei che protestavano per la scritta che aveva fatto affiggere sulla croce di Gesù, rifiutando di modificarla: “Quello che ho scritto, rimane scritto”, e non hanno voluto imitarlo.

E così, sono corsi ai ripari modificando il titolo incriminato rendendolo più comprensibile anche ai non addetti ai lavori e dando ragione delle loro scelte. Ecco allora il nuovo titolo, che dice le stesse cose del primo ma in modo diverso. “Popolo di un «Dio geloso» (cf. Es 34,14): coerenze e ambivalenze della religione dell’antico Israele”. Le virgolette al “Dio geloso”, indicano che si tratta della citazione di un testo che si trova nel libro dell’Esodo al capitolo 34 nel versetto 14 e anche in altri libri della Bibbia, come suggerisce il “cf.” che invita a “confrontare”. Le ambiguità sono state sostituite dalle “ambivalenze”, termine che si può applicare senza difficoltà a tante altre affermazioni della Bibbia. L’aggettivo “antico” applicato ad Israele evita di identificarlo non solo con lo stato omonimo attuale con tutti i risvolti politici annessi ma anche con tutti gli ebrei sparsi nel mondo. Infine la precisazione che si tratta della religione e non di una ideologia sgombra il campo da ogni altra interpretazione.
Non si è trattato di un make up di comodo per nascondere qualcosa ma della scelta delle parole giuste per comunicare in modo corretto le proprie idee, cosa che non era avvenuta nella prima formulazione del tema. Potrà forse sembrare un episodio insignificante, un refuso un po’ esteso. In realtà ha messo in grande evidenza il valore e l’importanza delle parole che possono pesare come macigni e produrre effetti disastrosi se usate in modo indebito. I biblisti dovrebbero saperlo visto che il loro mestiere è capire e spiegare la “Parola” di Dio presente nella Bibbia che attribuisce al cattivo uso delle parole umane le divisioni tra i popoli originate ai piedi della torre di Babele (Genesi 11,1-9).

Morire per due spighe o per quattro ceci…
La Bibbia attribuisce alle parole la capacità di produrre le realtà che indicano, quando sono dette da Dio: “Vi sia luce! E vi fu luce!” (Genesi 1,3) o anche quando appaiono scritte in modo misterioso per preannunciare la fine dell’impero babilonese (Daniele capitolo 5). Addirittura la pronuncia difettosa di una parola poteva causare la morte dell’incauto, rivelando la sua appartenenza alla tribù nemica. La parola così devastante è “scibbolet” (in ebraico significa “spiga”) che se veniva pronunciata “sibbolet” (secondo l’uso di una tribù) denunciava in modo indiscutibile l’origine del malcapitato. Secondo il racconto popolare riportato dalla Bibbia, furono quarantadue mila le vittime cadute nella trappola linguistica (Giudici12,1,7).
"Per un punto Martin perse
la cappa..." e se
avesse sbagliato tutta
la frase?
Una vicenda analoga è raccontata anche a proposito dei cosiddetti “Vespri siciliani” quando l’identificazione dei francesi da massacrare avvenne attraverso la pronuncia della parola “ceci” storpiata in modo incorreggibile dalla lingua d’oltralpe.
È risaputo che nella Bibbia i nomi delle persone non sono considerati semplici etichette ma esprimono la qualità di chi lo porta e la sua funzione nella società. Questa convinzione ha avuto come conseguenza l’uso di sostituire con il termine “Signore” quello che era considerato il nome di Dio, per evitare di profanare la sua stessa persona. Anche per noi cristiani il nome è importante quando si tratta di quello dato a Gesù che, pronunciato in ebraico significa “Salvatore” (cf. Matteo1,21), riferimento che si è perso nelle nostre traduzioni.
L’autore dell’Apocalisse arriva a promettere l’ingresso nella città celeste, che sarà chiamata con un “nome nuovo”, a quelli che a loro volta avranno ricevuto un “nome nuovo” che nessuno conoscerà tranne l’interessato. Potremmo parlare di “password” per il paradiso?
Ci sarebbe materiale abbondantissimo nella Bibbia per presentare il tesoro prezioso costituito dalle parole che a volte usiamo con tanta indifferenza e superficialità. Il titolo del convegno organizzato dall’ABI ha dimostrato quanto siano pesanti le nostre parole.

PS. Avevo concluso questo post quando ho avuto in mano il numero del quotidiano “Avvenire” di oggi 17 marzo che a pag. 22 pubblica l’intervista al presidente dell’ABI. Ho visto con soddisfazione la conferma della stima e solidarietà verso i fratelli ebrei ma non ho trovato la spiegazione del perché è stato corretto vistosamente il titolo e la presentazione del convegno.